Estratto

In questa pagina potete leggere il primo capitolo dell’opera:

Sembra molto carino il tuo paesello, Giulia.”

“E lo è. È splendido, anzi.”

“Da quanto tempo non lo vedi?”

“Ormai sono diciannove anni.”

“Diciannove anni? Ma sono tantissimi! Come hai fatto?”

“Non lo so. Ma quando sono partita avevo davvero bisogno di lasciarlo.”

“E come mai?”

Si specchiava nel grande lago. E la notte era ricamata di luci, brillava nei suoi occhi. Gli alberi folti e verdeggianti sfioravano il cielo. Le case potevano ridere assieme alle stelle, tant’erano alte. E il silenzio della notte avvolgeva quel quadro magnifico. Splendeva il riflesso nell’acqua limpida e lui guardava come incantato. I colori dei fiori nei giardini si rincorrevano veloci. Colori vivaci e altri un po’ pallidi, malinconici come Andrea. La notte rendeva tutto più armoniosamente splendido.

Satro era una cittadina ridente, tranquilla, piccola. Sorgeva su una vetta alta e incontaminata. Quell’aria di montagna tanto fresca e pura era privilegio di pochi. Il paesaggio sorrideva sereno disegnando il profilo di una città piacevolmente trascurata, che profumava di antico. Le rovine degli edifici più vecchi erano ricoperte di edere morbide e vellutate. D’inverno le strade in pietra erano sempre deserte. Solo la domenica mattina, quando dai paesi vicini venivano negozianti carichi di merci praticamente introvabili nel paese, la via principale traboccava di grandi e piccoli che accorrevano al mercato settimanale. Ed era davvero fantastico. Gli aromi orientali si diffondevano incontrastati tra le bancarelle. Profumi intensi e penetranti di incensi e stoffe di terre lontane, colori caldi e sapori stuzzicanti venivano abbracciati dai sensi curiosi e divertiti dei passanti. Già. Satro si risvegliava ancora innocente la domenica mattina. Nelle calde mattine d’estate i bambini scendevano a giocare nel parco e riempivano l’aria di urla e canti. Sui prati volavano tranquille farfalle variopinte e delicate, gli uccelli giocavano a nascondino dietro le fronde degli alberi più alti. Le melodie degli usignoli incantavano i passanti e la natura, che lieta sbocciava a quel magico suono. Era un paradiso. Un piccolo borgo lontano dalle grandi industrie, dai colossi e dai centri commerciali, lontano dal moderno consumismo, spietato e distruttore. Una cittadina che amava la pace e il calore dei bei vecchi tempi. Andrea l’adorava. Da bambino trascorreva intere giornate al lago con gli amici. Giocavano a palla, si sfidavano in gare di tuffi e nuoto o semplicemente, stesi sull’erba, guardavano il cielo per scoprire e inventare le forme più strane delle nuvole. Tante volte la sera si fermavano per osservare le stelle… quanti desideri espressi e mai avverati, sogni sprecati. S’illudevano, i bambini, speravano e credevano davvero che tutto fosse così facile. Ora Andrea ammirava il lago dalla finestra della sua stanza d’ospedale, ripensando con nostalgia all’innocenza e all’ingenuità dei bambini, rimpiangendo quei bei momenti. Gli piaceva correre a piedi nudi nell’erba ancora umida di rugiada o andare a pesca con suo padre. La sera, nel letto, immaginava spesso di poter tornare lì ancora una volta e ricominciare a vivere da dove aveva lasciato…

Andrea aveva sedici anni quando si risvegliò in quel letto d’ospedale, dopo due anni di coma apparentemente irreversibile. Aveva solo quattordici anni al momento dell’incidente. Ricordava ben poco appena sveglio… chiedeva di suo padre, della sua squadra, senza risposte. In fin dei conti la verità, per quanto straziante, l’avrebbe aiutato. Il padre gli aveva donato un rene ma era morto per una complicazione durante l’intervento. E la sua squadra, quella di cui era capitano da ormai cinque anni, si era sciolta in seguito ad un ennesimo fallimento. Il pallone rappresentava tutto per Andrea. I tanti trofei erano la sua unica gioia, oltre che un immenso orgoglio. L’espressione di fatiche e dolori, di vittorie meritate, di sfide contro i propri limiti. Eppure, da quel tragico giorno non furono mai più lucidati. La madre li odiava con tutte le sue forze, diceva che le avevano strappato la felicità. Giurò che non gli avrebbe mai più permesso di giocare a calcio. Ma Andrea ancora non lo sapeva. Era sveglio da poche settimane e non faceva altro che spiare il sole dalla finestra con la speranza di poter tornare, un giorno, a correre su un prato inglese tra le urla eccitate di miriadi di tifosi… e sognava, gli piaceva sognare, che quel giorno fosse vicino.

Nessuno aveva il coraggio di dirgli che aveva pochissime possibilità di rialzarsi. Del resto aveva solo sedici anni… e aveva già provato innumerevoli sofferenze e altrettante lo aspettavano all’esterno, dove sarebbe stato completamente solo. Ancora una volta.

La madre di Andrea era impazzita dopo la sua nascita. Viveva di antidepressivi e vitamine o forse il suo odio per la vita era così forte da tenerla in piedi. L’unica persona ad interessarsi di lei era Sabrina, la sorella maggiore di Andrea ma, come tutti sapevano, lo faceva solo per motivi economici. Da quando l’aveva lasciata il marito, poteva mantenersi con un misero stipendio da baby-sitter part-time. I soldi dell’assicurazione e la pensione le avrebbero fatto veramente comodo. Erano entrambe terribilmente avide ed egoiste, due donne senza più ragioni per vivere. Andrea era cresciuto in questo clima ostile e pesante, con il solo affetto e appoggio del padre, che ormai non c’era più. Almeno lui era un ragazzo speciale. Era dolce e comprensivo, riusciva sempre a consolarmi e a farmi ridere anche nei momenti più difficili. Non era affatto scontroso come la madre, anzi era ottimista, gentile, esibiva sempre un gran bel sorriso, era amico di tutti. Il suo unico punto debole era il calcio. La sua perfezione assoluta in ogni passaggio, l’originalità dei goals, il suo carisma, il suo altruismo e la sua simpatia conquistavano un intero stadio. Nonostante questo, non era presuntuoso o superbo, ma il calcio non era più solo una passione, stava diventando un’ossessione. Non esisteva più nulla, trascurava la scuola, talvolta persino gli amici pur di allenarsi assiduamente… e quel giorno tornava particolarmente affaticato, come al solito con la sua fidata lambretta rosso brillante. Un breve colpo di sonno, o forse un malore improvviso e, in un lampo, il motorino si rovesciò fuori strada. Andrea volò al di là del piccolo ponte… attimi veloci e incomprensibili. I suoi ricordi terminavano lì, a quando si risvegliò nel boschetto di Sant’Ermanno, a pochi metri da casa sua, con le gambe insensibili e circondato da volti sconosciuti. Anch’io ero lì. Ed era terribile. Per la prima volta vidi Andrea piangere, ma non potevo fare niente, ero completamente impotente. Io, che ero accanto a lui da sempre.

In pochi minuti, l’ambulanza irruppe a sirene spiegate. Due infermieri scesero in fretta e avanzarono spediti tra la folla. Io rimasi ancorata al suolo. Caricarono velocemente Andrea sulla barella, bisbigliarono qualche parola e, saliti sull’ambulanza, ripartirono. Nelle orecchie mi rimbombava il frastuono monotono e irritante delle sirene. Non riuscivo a muovermi.

Una mano mi sfiorò i capelli. Mi voltai e vidi mia sorella. Scoppiai a piangere e ad urlare. Lei non disse nulla, semplicemente mi abbracciò forte e mi accompagnò in ospedale.

Andrea era già in sala operatoria assieme a suo padre. Aspettammo per sei interminabili ore. Ripensai alle belle serate trascorse insieme, ai nostri giochi e ai nostri canti, sperando non restassero solo un ricordo. Volevo ancora godermi i miei quindici anni con il mio migliore amico. Ma, in pochi istanti, mi erano stati rubati entrambi. Un’infermiera spalancò la porta della sala d’attesa e chiamò la madre di Andrea. Con assoluta freddezza le comunicò l’esito dell’intervento: il marito era deceduto e il figlio era entrato in coma. La donna ebbe una crisi isterica. Quanto a me, la notizia mi  sconvolse al punto che mi sentii invecchiare all’improvviso…

A Satro, niente si era fermato senza di lui ma, nella mia vita, si era aperta una voragine immensa. Durante il suo sonno, trascorrevo tutto il mio tempo libero ai piedi del suo letto, raccontandogli le nostre avventure. Speravo che quei ricordi gli dessero un buon motivo per tornare.

Quando due anni dopo, in un consueto mattino di giugno, si risvegliò ancora stordito, io non c’ero.

Come al solito, lo raggiunsi nel tardo pomeriggio, mentre il sole tramontava tranquillo su Satro e dipingeva uno spettacolo splendido e irripetibile. Davanti alla stanza, trovai uno spettacolo insolito: una folla rumorosa accalcata sul ciglio della porta. Pensai subito al peggio. Invece, scoprii che si era svegliato e corsi eccitata a salutarlo.

Lui rimase in silenzio. Sembrava triste, smarrito. Lo guardavo cercando di incrociare i suoi occhioni azzurri. Ma il suo sguardo era perso nel vuoto o forse nel bianco ingiallito del soffitto. Forse non mi riconosceva… o semplicemente non aveva più voglia di parlare e aveva paura di scoprire la verità. Lo lasciammo solo per la cena. Un po’ di brodino tiepido, una fetta di pane integrale, un bicchiere di succo di frutta e una mela. E pensare che adorava la bistecca al sangue o gli hamburger tossici dei fast-food… ora era costretto ad un pasto da anziano ricoverato.

Quando tornai, il vassoio era ancora perfettamente intatto. Andrea osservava il cielo, le stelle, forse sognava o ricordava i tempi andati. Piangeva. L’abbracciai con tutto il calore che avevo dentro e sentii la sua rabbia esplodere in me.

“Dovresti mangiare qualcosa altrimenti non ti dimetteranno mai…”

“Ah sì? E io che pensavo di essere qui per le gambe… avrebbero potuto dirlo subito che l’obiettivo era avvelenarmi con queste schifezze!”

“Molto spiritoso! Senti…facciamo un patto: se mangi almeno la mela, domani ti porto un cheese-burger, ci stai?”

“Solo se resti ancora un po’”.

Parlammo per tutta la sera, scherzando e ricordando le corse nell’erba umida. Ci conoscemmo così. Avevo sei anni ed ero la bambina più veloce della contrada. Mi propose una sfida, che finì in risate e barzellette quando, inciampando nei lacci delle scarpe, gli caddi addosso…e lui, gentilmente, rimandò la sfida vedendo il mio ginocchio ferito e mi insegnò ad allacciarmi le scarpe. Da allora non ci siamo più lasciati.

Quella notte fu particolarmente lunga. Non vedevo l’ora di tornare dal mio Andrea. Quando finalmente il sole sorse timidamente in lontananza il mio cuore si riscaldò d’un’incredibile voglia di vita. Presi la bicicletta azzurra e mi avviai verso la scuola. Non facevo altro che pensare a lui…

La scuola era un edificio pericolante, dalle pareti stinte e le fi­nestre perennemente serrate. Le aule erano strette, buie, dall’odore inconfondibile di candeggina. I pavimenti di piastrelle ingiallite e polverose sostenevano pochi banchi traballanti, sedie scheggiate, una cattedra sproporzionata e una lavagna nera rovinata. Non un cartellone, un calendario, un pizzico di colore. Esattamente ciò che comunemente si considera una prigione. Ma quella mattina stranamente non avevo notato nulla. Mi sentivo ancora nel parco, tra i gigli e le orchidee, circondata dall’incantevole cinguettio dei passerotti e dal profumo dell’erba fresca. Non guardavo l’orologio pensando a quanto il tempo fosse crudele e non ascoltavo le parole e le prediche della signora Meriva. Le lezioni di matematica non erano particolarmente interessanti. Ma sorridevo ed ero tranquilla perché finalmente c’era di nuovo il mio Andrea.

Generalmente durante l’intervallo mi piaceva consumare il panino con Elisa seduta davanti all’entrata per vedere in lontananza i grandi pini della villa. Quel giorno invece preferii firmare un permesso e fuggire… Niente di meglio di una spensierata passeggiata in bicicletta dopo la scuola. Per quella magica giornata avevo indossato il mio vestito più bello, di lino indiano, rosa pallido e non troppo corto. Scarpe insolitamente aperte, fin troppo femminili per i miei gusti. Eppure in me  soffiava un’aria nuova, migliore suppongo. Avevo persino una collanina di caucciù al collo. La gente effettivamente mi seguiva con lo sguardo stupito nel mio tragitto. Pedalavo lentamente. Nel cuore mi esplodeva un irresistibile desiderio di ricominciare. Con Andrea. Avevo gli occhi illuminati di gioia e di quei vecchi, indimenticabili ricordi. Ogni tanto sentivo le lacrime accarezzarmi delicatamente il viso e per la prima volta non mi vergognavo del mio pianto felice. E intanto, silenziosa ed elegante, la bicicletta continuava a percorrere la stradina del parco. I bambini si divertivano a giocare e ad andare sull’altalena, controllati dagli occhi vigili e apprensivi delle madri.

Il prezioso spettacolo s’interruppe alla vista dell’ospeda-le. Mi incuteva un po’ di inquietudine, di ansia, ma lì, al terzo piano, mi aspettava il mio Andrea. Parcheggiai la bici accanto al cancello appena restaurato e mi avviai sicura verso le scale, tenendo stretto nelle mani il piccolo fagotto. Le infermiere correvano freneticamente da un reparto all’altro. Erano buffe nei lunghi camici bianchi e le cuffiette. Pochi gradini e finalmente entrai nella squallida stanza dove Andrea riposava beatamente. Non lo svegliai subito. Anzi lo guardai a lungo contorcersi tra le lenzuola chiedendomi cosa stesse sognando.

Non avevo mai notato quanto fosse bello il mio Andrea… la carnagione non troppo pallida, gli occhi sfilati, bagnati d’un azzurro intenso e dolce, i capelli scuri come il caffé, le labbra sottili e vellutate, qualche lentiggine solitaria sul naso all’insù, e, ovviamente, il corpo statuario da calciatore.

Dopo qualche minuto aprì gli occhi e mi sorrise, quasi come fosse un primo appuntamento. Sembrava emozionato come un bambino che ha appena scoperto il mondo e i suoi splendidi colori. Senza dire una parola gli porsi il sacchetto e davanti allo spettacolo di quel cheese-burger gli si illuminò lo sguardo. Infilò velocemente la mano in fondo alla busta, afferrò il tanto ambito pranzo, quasi come avesse paura che gli sparisse magicamente tra le dita, e lo appoggiò alle labbra per assaporarlo lentamente. Era talmente concentrato che non si accorse di me e del mio sguardo fisso sulle sue lentiggini. Mi faceva male vederlo costretto ad un letto a consolarsi con un misero pasto da fast-food. Eppure era felice. Si accontentava di quello snack e della mia compagnia per sorridere ancora. E intanto gustava il panino ad occhi chiusi e nascondeva il suo desiderio di vita in quell’espressione estatica… all’ultimo boccone quasi versò una lacrima di triste consapevolezza. Silenzio. Pochi attimi di silenzio e poi quella richiesta che mi terrorizzava ed emozionava allo stesso tempo:“Giulia, ti prego portami al parco…”. Ed io lo volevo con tutte le mie forze. Giurai che lo avrei portato a costo di rapirlo fuggendo dalla finestra.

Una volta sola con la mia bicicletta, ripensai alla visita e soprattutto alla promessa. Ma non riuscivo a togliermi dalla mente il suo sorriso. Lo avevo visto tante e tante volte sorridere, ma quella volta fu diverso. Il cuore mi balzò in gola e sentii una spinta infuocata, un crampo allo stomaco, colmare il vuoto che avevo dentro. Mi ero innamorata. Del mio migliore amico. Cercai di stroncare quella strana sensazione sul nascere. Non potevo rovinare la nostra amicizia. Mi ripetevo che era assurdo,  impossibile. Invece era vero. E purtroppo stava accadendo proprio a me, l’ingenua ragazzina dai lunghi capelli biondi raccolti in due codine, dal look trasandato e dai modi incredibilmente poco aggraziati… non mi ero mai innamorata prima di allora. Non sapevo come comportarmi, ma soprattutto dovevo convincermi che si trattava solo di un breve incubo. L’unico risultato che ottenni da quella tortura mentale fu una brutta caduta che mi costò un’orribile sbucciatura al ginocchio. Rimandai le mie paranoie alla sera, ma non riuscii a trovare la giusta soluzione. O meglio una la trovai: confessargli i miei veri sentimenti.

Gli avrei parlato sinceramente al parco. Non vi era posto migliore. E comunque l’alternativa era l’ospedale.

Mi risvegliai ancora con quella strana sensazione addosso e capii che non me ne sarei più liberata. I soliti due sbadigli, una bella doccia fredda e soprattutto niente di meglio di un buon caffèlatte. Il dubbio più atroce di quella mattina riguardava l’abbigliamento e, soprattutto, il trucco. Incredibile. Se non l’avessi vissuto sulla mia pelle non ci avrei mai creduto… io, Giulia Fante, incantata davanti allo specchio per ore a svuotare il mio modesto guardaroba. Non ero più soddisfatta dei classici pantaloncini di jeans e della maglietta corta a quadri colorati. Né del mio adorato berretto rosso. Né tantomeno della consueta acconciatura. Volevo qualcosa di speciale. Di unico. Sbirciai nell’armadio di mia madre e, di nascosto, “presi in prestito” un abitino bianco in seta, un paio di infradito di paglia e spiai persino nella tasca segreta della sua vestaglia per cercare la collanina di perle che le avevo regalato. Mi pettinai accuratamente la folta chioma e confesso che, in quindici anni, era solo la quarta volta. La terza era stata per la comunione. Aggiunsi un tocco di classe con del profumo alla violetta, del rossetto rosa e dell’ombretto chiaro. Cappello di paglia, borsetta in tinta e pronta a partire. O quasi. Non sapevo neanche come indossarla o come camminare con quelle assurde scarpe. Ma soprattutto non ero convinta nell’accattivante accento da vamp. Avevo provato più volte, con sfumature diverse e con gesti e sorrisi insolitamente femminili. Ero sul punto di uscire quando mi assalì il terribile presentimento che Andrea non avrebbe minimamente capito il senso di quella metamorfosi. Era troppo semplice e ingenuo per notare che avevo sciolto i capelli. Ma non mi arresi. Con un respiro profondo ripartii con la convinzione che lo avrei stupito. Forse non mi rendevo conto che andavo contro all’idea iniziale di reprimere i miei sentimenti. Infatti. Mi interessava solo conquistarlo.

Cavalcai la bicicletta e mi incamminai spedita con il solo timore che si sciogliesse il trucco. Lentamente attraversai le viuzze e i negozianti del mercatino quasi non credevano ai loro occhi. La fruttivendola accostò le labbra all’orecchio del pescivendolo e borbottò qualcosa. Nel frattempo un teppistello le rubò una mela. Gli altri acquirenti contrattavano i prezzi come in una grande città. Ed io continuavo la mia traversata cercando di non sporcare il vestito e di coprire il ginocchio infortunato. Arrivata a destinazione, scesi con particolare attenzione dalla bici e parcheggiai al solito posto. Mi aggiustai il vestito, mi guardai nello specchietto, riprovai il sorriso, lo sguardo attraente e, con andatura leggera e forzatamente femminile, raggiunsi il portone.

All’ospedale mi sentivo particolarmente osservata… sembrava una sfilata. Ma a quegli sguardi increduli e alle risate timide rispondevo semplicemente sistemando i capelli dietro le orecchie e sbattendo le ciglia. Davanti alla porta della stanza di Andrea ebbi ancora un attimo di esitazione. Bussai e dopo un respiro profondo afferrai la maniglia -come per cercare sostegno- e la girai con decisione. Andrea era lì, di fronte a me, sulla sua sedia a rotelle, camicia azzurra e una copertina a righe rosse e blu lungo le gambe. Mi salutò con un occhiolino ed io risposi con un sorriso. Fece finta di niente per un po’, ma all’ingresso del parco scoppiò in una grande risata… “Giulia ma che ti è successo? Sembri scappata da un film… troppo divertente! Giulia vestita da donna… incredibile!”. Rimasi in silenzio ma non mi scoraggiai, anzi ero ancor più determinata. Sì, anch’io posso essere una donna, caro Andrea…

La domenica mattina il parco era sempre frequentatissimo. E Andrea si guardava attorno stupito come fosse la prima volta che vi entrava. La siepe ai bordi della staccionata era stata potata da poco e ancora profumava di erba fresca. I fiori più piccoli si nascondevano timorosi tra i petali rosati, mentre i più grandi sfidavano coraggiosamente il venticello estivo e le corse rissose dei piccini. Nello stagno i pesci potevano nuotare tranquilli, disturbati solo dalle lussuose imbarcazioni di carta dei piccoli turisti. Andrea osservava le giostrine nuove, il prato inglese, le farfalle, il laghetto limpido e le barchette, i bambini che rincorrevano gli aquiloni o giocavano a nascondino. Le bimbe preferivano fingere di prendere il tè nella casetta di legno vicina allo stagno. Le nonne stavano sedute sotto un porticato a filare, scambiavano qualche parola e ogni tanto spiavano distrattamente i nipotini. I ragazzi più grandi invece si riunivano attorno alla fontana e si raccontavano il sabato sera. Le coppie passeggiavano serenamente tenendosi per mano nonostante le risate e le galoppate chiassose. Ed io fissavo insistentemente lui. Era quasi spaesato… talvolta distoglieva lo sguardo dai fiori per guardare il cielo. Sembrava che pregasse, magari di poter tornare lì a correre. Girammo a lungo attorno alla recinzione e Andrea si fermava a ricordare, a pensare. Era perfetto: io e lui circondati da tanta gente, ma soli. Soli in un angolino tra i gigli e gli abeti. Mi fermai di scatto. Lui si voltò un po’ dubbioso. Lo guardai negli occhi come non avevo mai fatto prima, seria e innamorata, e, raccolto il coraggio, gli dissi semplicemente “Ti amo”.

Niente. Forse mi aspettavo un bacio o anche solo un “Giulia, io ti amo da dieci anni!”. O che mi prendesse le mani e si dichiarasse come la tradizione vuole, con un anello nascosto sotto la coperta magari…O non so una carezza, un abbraccio, un fiore, un sorriso, qualcosa di romantico insomma… Ma niente di questo. Abbassò lo sguardo, strinse il bordo della trapunta ed attraversò un attimo di smarrimento. Non una parola, un gesto. Continuava a fissare le righe della coperta, in assoluto silenzio. Io non capivo, pretendevo solo la mia risposta. Forse iniziava a spiegarsi il perché del mio cambiamento improvviso e francamente non sembrava affatto contento.

“Riportami in ospedale. Adesso”.

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